A Manfredonia tra il 1705 e il 1707 accade un episodio fra il bizzarro e il tragico. Dello stesso ne fanno fede i documenti del notaio De Santis.
La storia inizia il 23 settembre 1705 quando una novizia del monastero di S. Benedetto, Isabella Del Giudice, trovata in stato di gravidanza, è consegnata dal Tribunale Arcivescovile alla signora Teresa Telera affinché la custodisca e la mostri pubblicamente solo in caso di richiesta del Reverendissimo Tribunale. Fin qui nulla di strano, se non fosse il fatto che la gravidanza aveva avuto origine dalla «copula carnale» avutasi tra la giovane Isabella e il sacerdote Giovanni Grazio de Fiore. Lo stato interessante, dopo vari maneggi, era stato accertato da una ostetrica e da un medico.
Il giorno 11 gennaio 1706, il signor Pietro Nicolò De Rossi, figlio della signora Teresa Telera (defunta il 2 dicembre 1705), accompagnato dal medico e dal notaio sopra citato, si recò dal governatore di Manfredonia per invitare, lui e il giudice, in casa propria ad assistere a quello che inizialmente sembrava il parto imminente di Isabella Del Giudice. Pietro De Rossi si accordò col governatore per incontrarsi più tardi in piazza (l’attuale Piazza del Popolo), il tempo di avvisare pure il giudice. Invero, Pietro salì anche in casa del signor Oronzo Tontoli, avvocato delle monache benedettine, pregandolo invano di assistere, anche lui, al parto. Raggiunta la piazza, vi trovò il governatore e il giudice, indi si recarono nella casa del signor De Rossi dove già li attendevano il vicario generale della Chiesa sipontina, Pompeo De Tomaso, il cancelliere della Curia, Nicolò De Benedictis, e il fiscale della Corte Arcivescovile, Michele D’Apollo.
A tarda notte, alquanto seccato, il signor De Rossi protestò davanti al vicario generale che, essendo defunta la madre, custode della detta Isabella, trovandosi impelagato in affari urgenti che lo riguardavano e con famiglia a carico, poiché la gravidanza della giovane donna risultava più impegnativa, rinunciava e rifiutava di continuare a custodire la novizia, e proponeva di consegnarla ad altri, altrimenti l’avrebbe cacciata di casa, lasciandola in stato di abbandono. Il vicario generale respinse le richieste del signor De Rossi, poiché la donna, a causa dell’imminente parto, non era in grado di muoversi. Per di più valutava gli inconvenienti e i disordini che sarebbero potuti accadere «uscendo la medesima da una casa tanto riguardevole», nonché l’ordine della Sacra Congregazione che vincolava Pietro De Rossi a tenerla, custodirla e a suo tempo consegnarla, a pena di scomunica. Il vicario si rivolse poi al regio governatore e al giudice, lì presenti, affinché fossero rispettati tali ordini, minacciando che di ogni inconveniente che fosse capitato alla detta Isabella ne avrebbero dovuto dar conto proprio loro assieme al signor De Rossi. Pietro Nicolò obiettò che l’ordine non aveva alcun valore, in quanto la consegna della giovane riguardava sua madre, «onesta matrona», ormai defunta; e fece istanza al governatore e al giudice di difenderlo, in quanto persona laica e vassalla del Re, altrimenti avrebbe fatto ricorso alle autorità di Napoli.
Il vicario De Tomaso spiegò che la novizia era stata consegnata alla casa del De Rossi perché poteva contare su «due degnissime dame», ovvero Teresa Telera e Chiara De Angelis, rispettivamente madre e moglie di Pietro Nicolò. E venendo meno la prima, rimaneva comunque l’altra. Pietro Nicolò ribatté che sua moglie era trentenne e non era in buona salute, e protestò per la violenza verbale con cui il vicario si rivolgeva a un vassallo di Sua Maestà.
Quello che sembrava un parto imminente si rivelò “soltanto” una perdita di sangue e acqua. Si decise infine di consegnare Isabella al vicario. Questi la fece trasportare nell’ospedale civile, accompagnata dal diacono Angelo Schinco e dalla moglie «dell’ospedaliero», i quali la affidarono ad Eleonora Di Cainnio, o Cauccio (in passato era stata carcerata dal fu vicario Giacomo Farina, con l’accusa di essere una fattucchiera), e a un prete “carcerato” nel medesimo ospedale «per delitto di furto sacro». Il vicario De Tomaso vietò alle ostetriche qualsiasi visita a Isabella, minacciandole di scomunica. Questa parte del racconto è documentata in un atto notarile del 25 gennaio dello stesso anno redatto nella sacrestia della cattedrale. Proprio qui proseguì lo scontro tra Pietro Nicolò e il vicario generale. Il secondo asseriva davanti al notaio che il parto era avvenuto in casa del signor De Rossi. Pietro Nicolò continuava a ribadire che Isabella Del Giudice era stata consegnata alle donne di casa sua già gestante, e nello stesso stato era stata riconsegnata al vicario De Tomaso; inoltre manifestò il sospetto che la censura ai danni delle ostetriche avesse avuto lo scopo di consentire l’occultamento del parto, avvenuto con l’aiuto di due persone disoneste, quali la detta Di Cainnio e il prete forestiero. Perciò incolpò il vicario di non essersi attenuto a quanto decretato dalla Sacra Congregazione, ovvero di consegnare la novizia a due persone oneste, accusa da cui il vicario non seppe difendersi.
Misteriosi sono i risvolti che prende la vicenda quando il 22 maggio Aniello Mazzone attestò che la sera del 25 marzo 1706, verso le 2 di notte, aveva visto passare vicino casa sua il signor Vicario generale in compagnia del Fiscale e del Cancelliere, nonché il sostituto del mastro giurato, Domenico Mastro Mauro, il boia Donato Frattarolo, e due soldati della Regia Udienza di Lucera, tutti mentre si recavano in ospedale. Incuriosito, lo stesso Mazzone si era accodato, e una volta salito aveva assistito all’interrogazione fatta alla giovane Isabella dal Vicario, il quale le aveva chiesto chi fosse stato a lanciare le pietre alla sua finestra. La donna aveva risposto che non ne sapeva nulla. Il Vicario aveva rilanciato dicendo che era al corrente che era stato il signor De Rossi, ma la Del Giudice aveva continuato a rispondere che ne ignorava l’artefice. Stizzito, il vicario De Tomaso l’aveva fatta colpire con uno schiaffo dal boia e nonostante ciò e le insistenze non ne aveva ricavato nulla. Così, dopo averla presa sottobraccio, si era appartato e sottovoce le aveva intimato di dire il nome di Pietro De Rossi e che se l’avesse fatto l’avrebbe aiutata. Ritornati più vicini ai signori presenti, l’aveva interrogata nuovamente e la donna aveva riferito che le pietre erano state lanciate dal signor Pietro Nicolò De Rossi. Questi fatti, come raccontati da Aniello Mazzone, furono confermati anche da un altro testimone, Domenico Mastro Mauro.
Ulteriori dettagli sono aggiunti da una deposizione di Angela Del Monaco, ostetrica originaria di Foggia e dimorante in Manfredonia, avvenuta il 20 giugno del 1706. Angela affermò di aver praticato la casa del signor De Rossi e della signora De Angelis e di aver notato più volte lo stato interessante della giovane Isabella, la quale risultò gravida fino al 12 gennaio 1706, giorno in cui fu consegnata al Vicario. Peraltro dichiarò di non aver mai constatato la presenza di latte al seno della Del Giudice. Poi, assieme a un’altra ostetrica, Anna Mairo, su ordine del Vicario e sempre prima della consegna, aveva visitato la novizia, facendola stendere sul letto, attestando il suo stato di gestazione poiché «si vedeva muovere nel ventre».
Avevano riferito il tutto al De Tomaso e in sua presenza e a quella di altri, l’avevano fatta camminare da una stanza all’altra per poterla meglio osservare. Ciò aveva provocato il lamento della gestante, perché provava molto fastidio al ventre. L’ostetrica proseguì confermando che Isabella era stata consegnata al Vicario poiché «havea gran vacuazione d’acqua, segno chiaro d’un vicino parto», e lei stessa si era bagnata il braccio quando aveva ispezionato la bocca dell’utero. Infine precisò che la donna era stata affidata al Vicario alle tre di notte del giorno sopra menzionato. La mattina seguente, la “mammana”, su richiesta della signora Chiara De Angelis, si era portata presso l’ospedale per accertarsi dello stato della gestante, ma le era stato impedito l’ingresso dal reverendo Angelo Schinco, uno dei custodi della novizia, poiché così era stato ordinato da Pompeo De Tomaso.
Altre novità vengono alla luce il 5 di agosto quando Rosa Scalambrino e Beatrice Tarolla, rispettivamente nutrice di una figlia di Pietro Nicolò De Rossi e serva del medesimo patrizio sipontino, svelarono con atto pubblico le loro disavventure presso la casa del regio giudice e del governatore della città, don Pelaggio De Riso. Il 24 luglio del 1706 erano state convocate nella casa del signor Oronzo Tontoli, dove risiedeva per un breve periodo il Regio Uditore don Francesco Naranga, per la causa della gravidanza di Isabella Del Giudice. Appena giunte erano state rinchiuse immediatamente in un camerino. La mattina seguente, giorno domenicale, erano state legate ai polsi e condotte dinanzi all’Uditore. Questi aveva lasciato intendere che avrebbe apprezzato se avessero dichiarato che il parto era avvenuto nella casa del De Rossi. Ma esse si erano rifiutate poiché era tutto falso. Così erano state divise e rinchiuse in camerini separati. Non potevano ricevere la visita di alcun parente, tranne che per la somministrazione dei pasti.
Ed una prima parte della tragedia così si consuma.
Ed ecco la commedia. Mercoledì 28 luglio Rosa Scalambrino fu portata dinanzi al regio uditore Naranga, legata e tenuta lì dalle 9 alle 16, per convincerla a dichiarare che il parto era avvenuto nella casa del De Rossi. Fu messa spalle al muro dal “rappresentante di giustizia”, maltrattata e soffocata con pugni che stringevano nello stomaco. Infine, la donna, che sentiva mancare il respiro, depose quanto richiesto dall’Uditore, il quale la liberò subito. La nutrice, per pulirsi la coscienza, si rivolse al reverendo padre Emanuele Tommaso Mondelli, priore dei padri domenicani della città, il quale la fece giurare davanti un crocifisso di dire tutta la verità più e più volte, ovvero che per colpa dei tormenti ricevuti dal Naraga era stata costretta a deporre il falso contro il signor De Rossi che era innocente. Quindi il padre priore la convinse a fare un atto pubblico nel quale dichiarasse la verità.
Anche Beatrice Tarolla affermò che fu legata e messa in una camera «senza respiro», dove stette fino al 29 luglio, giorno in cui fu portata dinanzi all’Uditore, il quale la spinse subito facendola andare con le spalle al muro, minacciandola affinché dichiarasse che il parto era avvenuto in casa del De Rossi e che lei aveva fasciato la creatura. La serva, rifiutando tale richiesta, subì un pugno in testa che la fece cascare a terra senza riuscire a rialzarsi, perché la donna aveva 60 anni. Così il Naranga ordinò di legarle anche i piedi e che fosse bastonata. L’anziana così accettò di deporre quanto richiesto da quell’uomo ottenendo subito la libertà. Anche lei per pulirsi la coscienza e per non far torto a Pietro Nicolò De Rossi che era innocente, dichiarò la verità con atto pubblico in un secondo momento.
A confermare la veridicità di quanto attestato dalle signore Scalambrino e Tarolla si aggiunge la dichiarazione congiunta di Cesare Di Troilo e Domenico De Stasio, i quali affermarono che quel giorno, passando per la piazza, incontrarono Grazia, una serva del signor Oronzo Tontoli, alla quale fu chiesto per curiosità, alla presenza di Leonardo Marchisiello e Antonio Berardinetto, cosa sapesse riguardo le deposizioni delle signore Rosa e Beatrice. La serva del Tontoli aveva risposto che dette nutrice e serva del De Rossi avevano subìto «tante mazzate, e tormenti» dal signor Uditore che erano state costrette a dire che Isabella Del Giudice era partorita in casa di Pietro Nicolò De Rossi.
Di don Francesco Naranga, uditore della regia Dogana di Foggia, sono fornite altre notizie da alcuni cittadini. Con rogito notarile, dell’ 11 agosto 1706, Aniello Mazzone, Cesare Di Troilo, Domenico De Stasio, Domenico Mastro Mauro, Antonio Berardinetto, Domenico Di Giovanni Francesco e Lonardo Marchisiello affermarono che il signor Naranga era arrivato in città nel mese di luglio per prendere informazioni in merito alla causa del parto di Isabella Del Giudice. Detta personalità era stata accolta con onori dal sindaco e dagli eletti della città e aveva soggiornato temporaneamente nella casa locanda di Camilla Cesarano, dove «hanno dimorato altri Reggij Ministri, e titulati», e la mattina seguente era stato portato in casa di Oronzo Tontoli, avvocato delle monache di S. Benedetto in detta causa assieme a Giuseppe Cessa e al dottor Girolamo Brencola. In quest’ultima casa il Naranga aveva dimorato per circa dieci giorni, sempre corteggiato dal Cessa e dal Brencola, i quali lo avevano accompagnato in carrozza in giro per la città, continuando a riverirlo pubblicamente, ovunque essi si fossero recati, dalla piazza alla visita alle monache e infine dal vicario generale.
Domenico Mastro Mauro e Leonardo Marchisiello asserirono di aver visto continuamente, nell’arco dei dieci giorni in cui il Naranga aveva dimorato nella casa del Tontoli, le monache di S. Benedetto donare numerosi viveri al regio Uditore.
Il 20 agosto del medesimo anno, con un’altra testimonianza, questa volta del signor Nicolò Riccio, il quale al tempo della consegna di Isabella al vicario era «Cursore dell’Arcivescoval Corte Sipontina», fu confermato che, quel 12 gennaio, la novizia, custodita in casa di Pietro De Rossi, dopo essere stata visitata dalle ostetriche Angela Del Monaco e Anna Mairo, nonché dal dottore fisico Bartolomeo Raimondi (i quali confermarono la gravidanza), era stata consegnata al vicario Pompeo De Tomaso e al reverendo Nicolò De Benedictis, cancelliere dell’«Arcivescoval Corte», alla presenza di diversi gentiluomini. Subito dopo la Del Giudice era stata trasportata in ospedale e affidata al diacono Angelo Schinco, allo stesso Nicolò Riccio, nonché a Lorenza Cardillo e ai coniugi Prudenza e Bartolomeo Longo. Questi ultimi erano degli ospedalieri, sottoposti del vicario, i quali avevano custodito per tutta la notte la ragazza gestante. La mattina successiva, le ostetriche Del Monaco e Mairo, una dopo l’altra, si erano recate in ospedale per «osservare» lo stato della serva novizia, ma erano state cacciate dagli stessi Schinco, Riccio, Cardillo e coniugi ospedalieri come ordinato dal Vicario.
Sicuramente è una vicenda insolita che coinvolge molti cittadini sipontini, i quali contribuiscono a delineare i vari aspetti del “misfatto”.
Altre tre donne, Camilla Falano, Giulia Di Leone e Teresa Benvenga, fornirono la loro deposizione, in quanto tutte vicine di casa di Pietro De Rossi. Esse confermarono che la sera del 12 gennaio Isabella Del Giudice era stata consegnata al vicario generale e poi portata in ospedale. In aggiunta, però, Camilla dichiarò di aver chiesto, il giorno 13 gennaio, al signor Bartolomeo Longo, ospedaliero che aveva in custodia la novizia, come stesse la giovane donna. Alla domanda il Longo aveva risposto che la notte del 12 «era andata gran quantità d’acqua in dett’ospidale, e che stava gonfia di pancia, e la Creatura si sentiva nel Ventre, che faceva come un Cavallo» e che «finito d’andare l’acqua haveva da fare un bel figliuolo Maschio».
Anche Teresa Benvenga, che incontrò i coniugi Longo il giorno 14, alla stessa domanda ricevette la medesima risposta di Camilla Falano.
Giulia Di Leone, proprietaria di una bottega, ebbe la stessa risposta dai coniugi che si erano recati presso di lei per acquistare alcune cose. Dopo quattro giorni, si trovò a passare presso la sua attività anche Eleonora Di Cainnio che alle solite domande rispose come i coniugi.
Ulteriori conferme sulla vicenda arrivano anche dal dottore fisico Bartolomeo Raimondi, uno degli eletti al governo della città, il quale affermò, il 20 agosto, di essere stato convocato il 12 gennaio precedente presso la casa di De Rossi dalla signora Chiara De Angelis, la quale gli aveva chiesto di poter visitare la giovane Isabella, a causa della grande perdita di acqua. Il dottore, pertanto, l’aveva fatta controllare dall’ostetrica, la quale, dopo essersi bagnata la manica della camicia, aveva diagnosticato la perdita dell’acqua dall’utero della del Giudice. Dopo la visita il dottore se ne era andato. Si tratta della stessa sera, quella in cui si trovavano nel palazzo di De Rossi il vicario generale, il notaio, i testimoni, il giudice ai contratti e altri gentiluomini. Su ordine di Pompeo De Tomaso, si era eseguita da parte delle ostetriche presenti, Angela Del Monaco e Anna Mairo, una visita «a carne nuda», le quali avevano attestato in presenza del vicario generale che la novizia era in stato di gravidanza.
Anche il dottor Raimondo, che aveva passato la mano sopra le vesti di Isabella, trovando il ventre molto gonfio, aveva confermato al vicario quanto era stato riscontrato già dalle due “mammane”. Il dottore ricordò, infine, che la novizia ancora incinta era stata consegnata al vicario, e che aveva saputo il giorno dopo, 13 gennaio, che era stata portata in ospedale.
Il 10 settembre 1706 aumenta il numero delle persone che dichiarano quanto è di loro conoscenza, in merito al caso di Isabella Del Giudice. I nuovi cittadini che danno la propria testimonianza sono i coniugi Nicolò Accarino e Laura Gamba Corta, poi Apollonia D’Aprile, Angela Longo, Caterina e Giulia Policastro, tutti abitanti nei pressi dell’ospedale, i quali dichiararono che, sabato 4 settembre, la serva conversa Isabella, poco prima di partire per Napoli, si era affacciata alla finestra e si era sfogata con le monache di S. Benedetto, accusandole di averla ingannata in merito alla deposizione in giudizio per la causa del sacerdote don Giovanni Grazio de Fiore di Carpino, il quale era stato accusato di aver avuto rapporti carnali con lei. La giovane aveva spiegato ai sopra elencati testimoni che le monache celestine, per tale motivo, avevano fatto molte promesse e poi le avevano negato perfino una camicia che aveva richiesto per il viaggio verso Napoli. Visto il loro tradimento e per pulire la propria coscienza, aveva detto alle presenti che le religiose l’avevano costretta a dire che «Dio non è Dio». Inoltre Angela Longo e Giulia Policastro si soffermarono nel dichiarare al notaio che donna Isabella aveva sempre lamentato che le monache «l’avevano ammaestrata contro del detto Reverendo sacerdote D. Giovanni Grazio de Fiore» e le avevano promesso una certa somma di denaro alla quale altre tre monache avrebbero aggiunto altri dieci ducati. Alla tragedia e alla commedia si aggiunge la corruzione.
Il 23 settembre, poi, si assiste ad un episodio che ha del misterioso. Il canonico Achille De Nicastro dichiarò al notaio che, nel mese di gennaio del medesimo anno, mentre era presso la propria abitazione con il dottor Oronzo Tontoli, avvocato delle monache celestine di S. Benedetto, si era presentato il signor Pietro De Rossi, il quale aveva raccomandato al detto Tontoli di far recapitare, in maniera sicura, alla «Sacra Congregatione di Santo Officio», una lettera redatta dal De Rossi stesso contro l’arciprete Gennaro Pascale «per detto, et udito» di Isabella Del Giudice. Questa lettera era stata letta e consegnata nelle mani dell’avvocato, il quale aveva promesso di farla recapitare presso la «Sacra Congregatione di Sant’Officio» nelle mani dell’avvocato delle monache presente in Roma.
Ciò porta a presupporre una relazione amorosa della novizia con l’arciprete Gennaro Pascale, e non con Giovanni Grazio de Fiore. Andrebbe anche indagato il legame tra l’arciprete e le monache, che potrebbero aver subìto delle pressioni. E andrebbe inquadrato l’atteggiamento del dottor Tontoli, il quale rifiutò di essere presente in casa di De Rossi quando la giovane sembrava pronta per il parto. Un vero e proprio intreccio misterioso.
Il giorno 4 ottobre effettuarono una solenne dichiarazione il dottore chirurgo Domenico Consales e il medico ordinario Giuseppe Cavaliere. Il primo dichiarò che tra il 31 dicembre 1705 e i primi di gennaio 1706, aveva incontrato l’ostetrica Angela Del Monaco, la quale lo aveva informato che la signora Chiara De Angelis chiedeva un suo intervento per visitare le mammelle di Isabella Del Giudice, poiché la novizia monaca se le era grattate, lasciando delle piaghe. Così il chirurgo si era recato a casa di De Rossi e dopo aver ricevuto le dovute spiegazioni dalla matrona, aveva provato a chiamare la giovane che però rifiutò di farsi visitare. Su insistenza della De Angelis la ragazza aveva acconsentito e mostrato le mammelle al Consales, il quale constatò che aveva «due piaghe sopra le zizze marudite» e ne ordinò «medicamenti opportuni, stante che dette piaghe erano fatte con l’unghie», inoltre non vide alcun segno di latte.
Mentre il dottor Cavaliere confessò che tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 1706 (non ricordando il giorno preciso), si recò in ospedale per compiere alcune visite, e prima di andarsene fu chiamato da Eleonora Di Cainnio (che aveva in custodia la ragazza in stato interessante), per fargli controllare se la giovane avesse il latte. Il dottore chiese più volte a Isabella di uscire almeno una mammella per verificare la presenza del latte, ma la novizia respinse tali richieste, così il Cavaliere, alterandosi «la mandò a’ mal’hora, e se n’uscì da detto ospidale».
L’anno successivo, 1707, giorno 5 marzo, Ursula Mielosi (vedova del defunto notaio Leoncarlo Mazzone) e Porzia Merlino dichiararono che, nel mese di ottobre del 1706, Isabella Del Giudice era fuggita dal carcere arcivescovile e si era nascosta nella casa della signora Ursula per quattro giorni. Le due testimoni affermarono che, per curiosità, avevano osservato la fuggitiva e giurarono di non aver trovato segni di gravidanza, né segni di parto, e che «stava nell’istesso modo, forma, e maniera, che stanno le Vergini, e zitelle». La stessa Isabella riferì loro che mai era stata incinta. Una testimonianza, quella delle due donne, completamente opposta a quanto riferito da altri numerosi testimoni e a quanto giurato da medici, ostetriche ed altre personalità cittadine. Viene più forte da chiedersi dove sia la verità!
Nel documento si riferisce anche che la Del Giudice risulta essere già defunta. Inoltre, si parla di carcere arcivescovile, mentre precedentemente si parlava di una sua custodia in ospedale.
Questo parrebbe significare una mancanza di documenti relativi il trasferimento dall’ospedale al carcere, oppure che in ospedale era prevista la presenza di qualche stanza adibita a carcere. Una indicazione è fornita dalla testimonianza, dell’ottobre 1707, di alcuni patrizi anziani della città, tra i quali Benedetto Tontoli, Girolamo Brencola, Ottavio De Stasio, Francesco Perrucci, Leonardo Bissanti e altri, i quali chiarificarono che da tempo immemore «per qualsiasi causa, ò delitto per grave che fusse stato commesso, ò originato da donne così forastiere, come commoranti in detta città, mai le medesime sono state carcerate in carceri formali, mà sempre nelle case de magnifici Mastro Giurati, ò loro Sustituti prò tempore e da pochi anni à questa parte qualche volta sono state mandate carcerate nella casa del Giurato ordinaria Cancellarìa».
L’arcano sembra infittirsi ancora di più quando, sempre il 5 marzo 1707, Camilla Garabba alias di Soletta, e Maria Todero, lavandaie della città, giurarono e dichiararono davanti al notaio quanto segue: i primi del mese di agosto 1706 Camilla era stata chiamata dalla madre badessa del monastero di S. Benedetto al fine di far lavare i panni delle religiose, il tutto all’oscuro della signora Maria, che era stata esclusa per diverse ragioni. Ma Camilla, dopo aver preso la biancheria sporca, all’insaputa delle monache, era andata a lavarla con la signora Todaro. Giunte presso la fontana, a quest’ultima capitarono la camicia e altri indumenti di Isabella, che era rinchiusa in carcere. Notando alcune macchie di sangue, la lavandaia lo aveva riconosciuto come sangue mestruale, e ciò significava che la giovane non era incinta come si vociferava. Il giorno seguente Camilla aveva portato la biancheria pulita in monastero e aveva riferito alla madre badessa che tra gli indumenti vi erano quelli della giovane Del Giudice sporchi di sangue mestruale, allertandola di fare attenzione a ciò che stavano facendo a quella ragazza, ma la badessa non aveva proferito parola alcuna. Il mese seguente si era verificato lo stesso episodio. Camilla, dopo aver portato i panni sporchi del monastero a lavare presso la fontana, si era fatta aiutare da Maria la quale aveva nuovamente ritrovato la roba di Isabella sporca di sangue mestruale. La signora Garrabba aveva restituito successivamente il bucato alle religiose, e prendendo in disparte la badessa aveva riferito nuovamente degli indumenti della novizia, ma la monaca aveva ribattuto che «quel sangue, che stava nella cammiscia, panni, e lenzuolo era originato da un […] che la medesima si haveva fatto nella panza con un vetro». Tale risposta non aveva incantato la lavandaia, la quale ribadiva che quello era sangue mestruale. Lo sapeva per esperienza, poiché aveva avuto molti figli.
Il 15 marzo 1707 testimoniò anche Domenico Mastro Mauro che esercitava la carica di sostituto del mastro giurato. Riferì che in una delle sue consuete ronde notturne, due giorni prima che Isabella fosse consegnata al vicario, si era imbattuto nel signor Pietro Nicolò De Rossi, verso le 4 di notte, insieme all’ostetrica Angela Del Monaco e, quando aveva chiesto loro cosa stessero facendo, il De Rossi aveva risposto che aveva chiamato la “mammana” perché la giovane Del Giudice stava per partorire.
Un’ultima testimonianza, contraria alla maggior parte delle altre, è di Laura Falco. Il 30 marzo 1707 affermò che, avendo avuto confidenza e servitù con i De Rossi, era riuscita a curiosare e a osservare la giovane Isabella a «carne nuda», constatando con certezza che non era incinta, in quanto «il valliculo, che ogni donna gravida lo tiene per il gonfiore della panza uscito fuori, quella lo teneva dentro quasi un mezzo deto», restando mortificata per tali «inventioni». Uscendo dalla casa del De Rossi, aveva raccontato pubblicamente ciò che aveva visto e in particolare lo aveva riferito a Caterina D’Aprile e a Caterina D’Elia. Concluse dicendo che «tutte le genti parlavano allo sproposito, e s’ingannavano, e che n’avevano da dare strettissimo conto al cospetto di Dio ti tale infamia».
L’oscura vicenda ebbe un epilogo tragico. Isabella Caterina Del Giudice, nata il 21 gennaio 1683, morì senza sacramenti con una «scoppettata alla gola», venerdì 29 ottobre 1706, intorno alle due di notte. Non si sa dove sia avvenuta la morte. Difficilmente potrebbe trattarsi di un suicidio, più probabilmente di un omicidio. Un omicidio che potrebbe avere avuto anche più mandanti, ma sarebbe un azzardo il solo ipotizzarne qualcuno.
Un colpo, uno solo e ben assestato, pose fine a quella che era diventata la vita tormentata di una giovane donna di solo 23 anni. Forse Isabella nella sua più profonda intimità avrebbe voluto vivere la gioia della maternità. O forse era stata semplicemente vittima di una violenza sessuale di un insospettabile che poi non è riuscito a occultare la malefatta. Forse qualcuno voleva davvero tutelarla. O forse Isabella è stata protagonista di un gioco che col passare del tempo è diventato più grande di lei, finendo in un vortice generato dallo scontro tra potere temporale e potere spirituale. Sono solo interrogativi e in assenza di prove non ci sono risposte. Resta una pagina di storia triste e oscura della nostra comunità nel ’700.
Un ringraziamento va al prof. Pasquale Ognissanti, storico e profondo conoscitore degli atti notarili riguardanti la comunità sipontina tra il ’600 e l’800, per aver fornito utili informazioni relative ai documenti riguardanti l’accaduto, avendo trattato anche lui l’argomento sotto altri aspetti.
Giacomo Telera